Rivoluzione copernicana per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.

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La sentenza n. 25201 del 7/12/2016 della Corte di Cassazione ammette la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo allo scopo di aumentare la redditività dell’azienda.

Non più quindi per straordinarie contingenze, quali crisi economico finanziarie e necessaria riduzione dei costi, ma anche per aumentare il profitto nell’ottica di un ampliamento della funzionalità ed efficienza dell’azienda, in considerazione del diritto, costituzionalmente garantito (art. 41), dell’autonomia gestionale dell’imprenditore, non sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità.

Si tratta di una prima vera presa di posizione nei confronti delle varie interpretazioni della norma cardine in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (n. 604 del 1966, artt. 3 e 4.), secondo cui esso è lecito in nome di ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Tali interpretazioni sono state da sempre tendenti in modo maggioritario alla verifica della sussistenza dell’esigenza dell’azienda di far fronte a spese in presenza di situazioni sfavorevoli e di un andamento negativo della produttività aziendale  e non già della mera volontà di accrescerne il profitto.

La sopracitata sentenza costituisce uno spartiacque in quanto sostiene in maniera chiara l’infondatezza dell’assunto secondo cui, ai fini della legittimità del licenziamento, il datore di lavoro dovrebbe provare la necessità della contrazione dei costi a causa di sfavorevoli contingenze di mercato perché incompatibile con l’art. 41 Cost., che lascia all’imprenditore la valutazione e la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi ai fini di incremento della produttività aziendale, potendo quindi scegliere i mezzi attraverso i quali migliorarne la redditività.

Inoltre, prevede ed inserisce una ipotesi fattuale non espressamente prevista dalla legge n. 64 del 1966, sostituendosi in questo modo al legislatore, prevedendo una fattispecie di fatto non esistente.

Ed ecco che si apre uno “scontro” tra interpretazione letterale e giuridica delle norme e ciò che può essere considerato socialmente opportuno.

Bisogna considerare che i diritti a tutela del lavoratore, quali gli artt. 4 e 35 Cost., sono costituiti da tutele affidate alla discrezionalità del legislatore, in rapporto alla situazione economica generale.

Nessun obbligo di crisi aziendale quindi. Si potrebbe ancora obiettare che i commi 2 e 3 dell’art 41 Cost. riservano nuovamente al legislatore la facoltà di indirizzare l’iniziativa economica privata a fini sociali. Ma tuttavia nessun obbligo in tal senso, in assenza di una specifica deliberazione legislativa.

Tale obbligo non può essere dedotto nemmeno attraverso una lettura trasversale del dettato comunitario. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vieta licenziamenti ingiustificati, conformemente al diritto comunitario e a quello dei singoli stati. I Trattati dell’Unione europea nulla dicono però in tal senso (escludendo le direttive riguardanti i licenziamenti collettivi).

Il giudice non può quindi sindacare la legittimità del licenziamento entrando nel merito sulla base di un presupposto di fatto non previsto dalla fattispecie del giustificato motivo oggettivo.

Diverso è ovviamente il presupposto della non pretestuosità, veridicità e non discriminatorietà della motivazione, su cui il giudice può in ogni caso sindacare.

La domanda a questo punto è se la sentenza riuscirà ad essere un nuovo pilastro cui si adegueranno i giudici di merito, abbandonando il principio del favor lavoratoris.

E soprattutto si potrebbe ancora opinare che tutelare il singolo, nel caso in cui l’azienda voglia licenziarlo per aumentare redditività e produttività dell’azienda, potrebbe ledere l’interesse dell’economia generale e quindi della collettività o della situazione occupazionale globale.

Quindi tutela del singolo o della collettività?

E chi può decidere quale sia l’interesse meritevole di maggiore tutela? Di certo non il giudice di volta in volta.

Bisogna forse attendere un intervento del legislatore che sia chiarificatore in un senso o nell’altro, inserendo elementi fattuali laddove non previsti dalla norma?

Staremo a vedere.

Consulenza del Lavoro 3.0 srl

(Società tra Professionisti)