Profili social dei dipendenti tra tutela della privacy e strumento di prova.

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Quando i social network possono diventare “arma” del datore di lavoro per controllare il lavoratore?

Quando i social possono essere prova per una eventuale sanzione disciplinare?

La vita privata del lavoratore è, di norma, esclusa da qualunque forma di invasione del potere disciplinare e direttivo del datore di lavoro, attenendo i comportamenti svolti al di fuori del luogo e dell’orario di lavoro esclusivamente alla sfera personale dell’individuo, in linea con le leggi in materia di tutela della privacy.

Tale assunto risulta essere meno assoluto durante la nostra epoca, nella quale l’estrema interconnessione e possibilità di geolocalizzazione dell’individuo (si pensi ai sistemi gps nelle auto aziendali, all’utilizzo del telepass o di tablet aziendali e così via), hanno reso questo confine più labile, conducendo ad un bilanciamento tra la libertà e la dignità dei lavoratori ed il legittimo interesse del datore di lavoro.

Negli ultimi anni, inoltre, l’utilizzo continuo dei social network di ognuno di noi, ha posto all’attenzione degli esperti del diritto anche la questione della possibilità o meno del datore di lavoro di monitorare il dipendente in merito agli aspetti della sua vita extralavorativa tramite ciò che questi pubblica sulla sua pagina personale di social come facebook, instagram e così via.

È chiaro che il datore di lavoro, quale comune utente, può avere accesso alle pubblicazioni del proprio dipendente in base alle impostazioni sulla privacy che questi ha impostato, ma la vera domanda consiste nella possibilità di utilizzo da parte del datore di lavoro stesso di eventuali post o informazioni recepite tramite i social quale prova utile al fine di comminare una sanzione disciplinare.

L’orientamento di massima, in base alle indicazioni fornite dai Garanti europei della privacy riuniti nel Gruppo “Articolo 29”, consiste innanzitutto nell’assoluto obbligo del datore di lavoro di informare adeguatamente il dipendente sulle modalità di trattamento dei suoi dati personali e su eventuali forme di controllo sul lavoratore.

In secondo luogo, ciò che è veramente rilevante è che le informazioni recepite da qualunque strumento, devono essere utilizzate dal datore di lavoro strettamente nei limiti della finalità perseguita, come la sicurezza ed il buon andamento dell’attività lavorativa.

Tale linea va seguita anche nel caso specifico dei social network. Difatti la consultazione di questi ultimi deve essere limitata ai soli profili professionali, escludendo le informazioni riguardanti la vita privata.

Se infatti queste venissero prese in considerazione, oltre a venirsi violato il diritto alla privacy, potrebbe essere facilmente leso anche il diritto alla non discriminazione. Infatti sui social non di rado si espongono idee politiche, sociologiche e così via, che non devono risultare oggetto di discriminazione lavorativa.

In taluni casi però, può accadere che venga, tramite una foto o un post, immortalato un gesto di tale rilievo da essere stigmatizzato a prescindere e quindi valevole ai fini dell’imposizione di un provvedimento disciplinare.

Tale è stato il caso di un dipendente che aveva postato una foto nella quale era ritratto sfoggiando un’arma. In tal caso il giudice ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato dal datore di lavoro a seguito della visualizzazione della foto, poiché tale immagine risultava talmente contraria ai principi fondamentali nel nostro assetto costituzionale, a tal punto da ledere interessi morali e materiali del datore di lavoro.

Come si evince, anche in tal caso, risposta univoca circa il possibile utilizzo o meno dei social quale prova ai fini disciplinari, non esiste.

A cura del Dott. Ciro Abbondante – Consulente del lavoro e della Dott.ssa Vincenza Salemme – Praticante Consulente del Lavoro.