Il contratto di lavoro intermittente, o a chiamata, introdotto dal D.Lgs. n. 276/2003, artt. 33-40 è un contratto di lavoro subordinato mediante il quale il lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro per lo svolgimento di prestazioni discontinue, con frequenza non determinabile.
Elemento caratterizzante è la mancanza di esatta coincidenza tra la durata della prestazione e la durata del contratto di lavoro che, a sua volta, può essere stipulato solo in presenza di determinati requisiti, a seguito delle novità introdotte dal D.Lgs. n. 81/2015:
Dunque, così come confermato dal comma 3, art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015, il contratto intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore alle 400 giornate nell’arco di tre anni solari, ad eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi, dello spettacolo. Il superamento del suddetto limite comporta la trasformazione in un rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato.
Due sono le particolari tipologie di contratto a chiamata che vengono a configurarsi:
Nel primo caso, il lavoratore si obbliga, a livello contrattuale, a rispondere alla chiamata effettuata dal datore di lavoro e, dunque, si impegna a garantire la sua prestazione lavorativa. Come controprestazione, il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli mensilmente un’indennità di disponibilità, il cui importo è fissato dai contratti collettivi di settore e non può essere inferiore al 20% della retribuzione mensile prevista dal CCNL applicato, in aggiunta alla retribuzione maturata per le ore di lavoro effettivamente prestato.
In caso d’impossibilità dovuta a malattia o altra causa, il lavoratore deve informare tempestivamente il suo datore di lavoro, in tale periodo non matura il diritto all’indennità di disponibilità e se non ottempera all’obbligo, perde il diritto all’indennità stessa per un periodo pari a 15 giorni. L’ingiustificato rifiuto di rispondere alla chiamata può costituire motivo di licenziamento e può, altresì, comportare l’obbligo di restituire l’indennità percepita nel periodo successivo alla chiamata rifiutata.
Nel secondo caso, il lavoratore non è obbligato a rispondere alla chiamata e, correlativamente, non gli spetta l’indennità di disponibilità.
Come precedentemente accennato, il possibile rifiuto ingiustificato del lavoratore a rispondere alla chiamata può costituire motivo di licenziamento ed a quest’ultimo viene applicata la normativa dei licenziamenti valida per i lavoratori dipendenti. Il datore di lavoro può licenziare solo in presenza di cause previste dalla legge e quindi:
Di conseguenza, una volta risolto il contratto, il dipendente licenziato ha diritto all’indennità di disoccupazione NASpI (il sussidio di disoccupazione introdotto con il Jobs Act, legge n. 183/2014, che ha sostituito l’ASpI, indennità di disoccupazione prevista dalla riforma Fornero del 2012), a patto che il lavoratore abbia maturato 30 giornate di lavoro nell’anno in corso e 13 settimane di contributi nei quattro anni precedenti l’inizio della disoccupazione.
Ritornando al fulcro della questione, ci si chiede: qual è l’obbligo del datore di lavoro all’atto dell’interruzione di un rapporto lavorativo a tempo indeterminato, compreso il rapporto intermittente? Orbene, il datore di lavoro è obbligato a corrispondere il “Ticket di licenziamento”, un vero e proprio contributo aggiuntivo, introdotto dalla legge Fornero 92/2012, nei casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, per cause diverse dalle dimissioni del dipendente e della risoluzione consensuale.
Precisamente, il Ticket, calcolato in base ai mesi di anzianità in azienda, comprese le frazioni di mesi superiori ai 15 giorni, va pagato in casi peculiari quali: licenziamento per giusta causa, licenziamento per giustificato motivo oggettivo e soggettivo, licenziamento del lavoratore a chiamata, dimissioni del dipendente per giusta causa, dimissioni della lavoratrice durante il periodo di maternità, mancata conferma di un apprendista al termine del periodo di formazione, risoluzione consensuale del rapporto di lavoro dopo una conciliazione obbligatoria presso la DTL, licenziamento collettivo senza accordo sindacale.
Contrariamente, il Ticket non va pagato in caso di dimissioni volontarie del lavoratore, scadenza di un contratto a termine, risoluzione consensuale non a seguito di conciliazione obbligatoria, licenziamento di collaboratori domestici, lavoratori assicurati dall’Inpgi (Istituto di previdenza dei giornalisti), operai agricoli, operai extracomunitari stagionali, decesso del lavoratore.
Infine, al fine di adempiere correttamente all’obbligo, il Ticket di licenziamento va versato in un’unica soluzione, constatata la non ammissibilità della rateizzazione ed il pagamento dovrà essere effettuato entro il giorno 16 del secondo mese successivo al licenziamento.
A cura del Dott. Ciro Abbondante – Consulente del Lavoro e della Dott.ssa Bianca Panico – Praticante Consulente del Lavoro.