Dipendente che utilizza l’auto aziendale anche per fini personali.

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Non costituisce giusta causa di licenziamento l’utilizzo dell’autovettura aziendale in pausa pranzo o per percorrere il tragitto casa/lavoro. Così ha statuito la Corte di Cassazione con sentenza n. 137 del 19 gennaio 2018.

Il licenziamento disciplinare rappresenta la sanzione massima che il datore di lavoro può comminare al dipendente a seguito di un comportamento tale da ledere, irreparabilmente, il vincolo fiduciario.

Nel caso de quo, il giudice ha negato la proporzionalità del provvedimento espulsivo rispetto alla condotta posta in essere dal lavoratore, che non era stata tale da recare un danno alla società.

Infatti, oggetto della contestazione disciplinare è stato l’utilizzo dell’auto aziendale durante la pausa pranzo e per recarsi a casa a fine giornata lavorativa. In entrambi i casi, il giudice non ha ravveduto alcuna condotta dolosa del lavoratore, la quale risultava invece contraddistinta da una scarsa valenza trasgressiva

Ciò in particolar modo in ragione del fatto che non si evinceva alcun intento profittatore in un comportamento non solo comunemente accettato, ma neanche lesivo di specifiche norme aziendali in merito alla corretta gestione delle autovetture in servizio.

Per di più non era parso accertabile un pregiudizio economico nei confronti della società, la quale non aveva contestato la condotta del lavoratore con dati certi in merito alla quantità di carburante presumibilmente consumata.

Ulteriore elemento di analisi favorevole al dipendente, era la non emersione di una distrazione dai fini lavorativi e professionali, non concretizzandosi la condotta nell’utilizzo dell’auto per il disbrigo di incombenze personali, ma sempre orientata al fine prettamente lavorativo.

Ciò soprattutto in ragione della comune definizione in senso “lato” dell’uso del mezzo per motivi di lavoro, non venendone in tale circostanza travalicati i limiti.

Dando rilievo inoltre alla specifica storia lavorativa del soggetto, lo stesso non era mai stato destinatario di altre contestazioni disciplinari, risultando la misura espulsiva sproporzionata sia oggettivamente che soggettivamente.

Pur non essendo tale condotta richiamata espressamente all’interno della contrattazione collettiva di riferimento come valevole ai fini del licenziamento per giusta causa, non è questa la ragione per cui il giudice non l’ha ritenuta idonea a configurare il licenziamento, confermando invece che l’elenco richiamato nel Ccnl non va considerato tassativo. Ma bensì a causa della scarsa gravità della condotta e del relativo scarso disvalore etico e sociale.

A cura della Dott.ssa Rosaria Pilato – Consulente del Lavoro e della Dott.ssa Vincenza Salemme – Praticante Consulente del Lavoro.