Principi di validità del patto di non concorrenza.

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L’art. 2125 C.C. disciplina l’impiego del patto di non concorrenza, quale contratto attraverso il quale il lavoratore si impegna a non svolgere attività di concorrenza nei confronti del datore di lavoro, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, ricevendo in cambio dallo stesso un determinato compenso che va, di norma, dal 15 al 25/30% della retribuzione.

Il patto deve essere redatto necessariamente in forma scritta e la durata del vincolo può essere al massimo di cinque anni per i dirigenti e di tre anni negli altri casi.

Il patto risulta invalido e quindi nullo se:

-          Non discende da atto scritto;

-          Non è pattuito un corrispettivo in favore del prestatore di lavoro; in base al dettato dell’art. 2125 c. c, deve sussistere proporzionalità tra la portata del sacrificio del lavoratore ed il quantum pattuito in compensazione del sacrificio stesso: tanto maggiore sarà il sacrificio imposto al lavoratore tanto maggiore dovrà essere il compenso per risultare congruo;

-          Non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La ratio alla base dell’ultimo dei requisiti descritto sta nell’evitare che l’ampiezza del vincolo possa essere tale da comprimere la possibilità del lavoratore di procurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita, che possa  comprometterne la potenzialità reddituale, e affinché non sia preclusivo della possibilità di svolgere un’attività coerente con la professionalità già acquisita.

All’interno del patto può essere statuito che il pagamento del corrispettivo avvenga  in costanza del rapporto di lavoro e non necessariamente al termine dello stesso.

Parte della giurisprudenza si trova in disaccordo con tale valutazione in quanto l’erogazione dello stesso in costanza di rapporto di lavoro, introducendo la variabile aleatoria ed indefinita della durata del rapporto di lavoro, violerebbe il requisito di determinatezza del compenso stesso, così come descritto dall’art. 2125 C.C.   Altra parte della giurisprudenza lo ritiene legittimo purché stabilisca durata e valore del compenso e purché venga retribuito in aggiunta alla normale retribuzione con specifica voce e purché non venga assorbito da eventuali futuri aumenti contrattuali.

È consigliabile inoltre prestabilire una modalità di rivalutazione del compenso, in quanto il lavoratore potrebbe richiederne una valutazione di congruità anche successivamente, per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Tale corrispettivo non deve quindi avere la funzione di premiare la fedeltà del lavoratore, ma bensì di compensarlo per il sacrificio dovuto alla rinuncia all’attività concorrenziale, oggetto del patto. 

A cura del Dott. Ciro Abbondante (Consulente del Lavoro) e della Dott.ssa Salemme Vincenza (Praticante Consulente del Lavoro)