Il lavoratore demansionato ha diritto al risarcimento per danno esistenziale?

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In costanza di rapporto lavorativo, ad un lavoratore possono essere assegnate mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica di appartenenza o potrebbe addirittura non essere soggetto a nessuna mansione. Il suddetto fenomeno è meglio conosciuto come demansionamento o dequalificazione professionale, che dà diritto al lavoratore medesimo al risarcimento dei danni e dei pregiudizi subiti, provati e dimostrati.

Potrebbero configurarsi più danni, anche contemporaneamente presenti, quali il danno patrimoniale, il danno biologico e il danno esistenziale.

Il danno patrimoniale si verifica allorquando il lavoratore viene ingiustamente inquadrato in un livello inferiore a quello cui aveva diritto, in deroga all’art. 2103 c.c., ai sensi del quale il lavoratore deve essere addetto alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito o a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Il datore di lavoro è quindi obbligato a risarcire il lavoratore corrispondendogli tutte le differenze retributive ed economiche previste, se fosse stato inquadrato correttamente.

Il danno biologico, al contrario, sussiste quando il lavoratore lamenta di aver subito delle lesioni nel fisico e nella psiche. Pertanto, potrà chiedere un accertamento dello stato da parte di un medico e sulla base della perizia medico-legale, chiedere un risarcimento, in quanto l’integrità della persona è un bene primario costituzionalmente garantito. L’entità del risarcimento da danno biologico dipenderà dal tipo di menomazione psicofisica che ha subito il lavoratore, dal grado di percentuale d’invalidità riscontrato e sarà calcolato utilizzando tabelle specifiche.

Per ultimo, il danno esistenziale, rientrante nella categoria dei danni non patrimoniali di cui all’art. 2059 c.c., è un vero e proprio pregiudizio provocato dal demansionamento nella sfera personale del soggetto, che si traduce in un peggioramento della qualità della vita, delle abitudini, degli assetti relazionali propri della persona, fornendo la prova di aver preso scelte di vita diverse da quelle che avrebbe adottato se non si fosse verificato l’evento dannoso.

Proprio in merito alla possibilità di risarcire un danno esistenziale da demansionamento, si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22288 del 25 settembre del 2017, secondo la quale “il danno non patrimoniale, che ricomprende anche il danno di tipo esistenziale, deve essere risarcito quando sia conseguenza di una lesione in ambito di responsabilità contrattuale di diritti inviolabili costituzionalmente garantiti”.

Affinché il lavoratore possa pretendere un risarcimento per il danno esistenziale, il medesimo dovrà provare che il demansionamento abbia inciso negativamente, alterando il suo equilibrio di vita, anche a mezzo di presunzioni semplici, quali la lesione alla dignità personale ed al prestigio professionale.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società datrice di lavoro, secondo la quale i giudici di merito non avrebbero indagato sull’esistenza di un danno effettivo ma avrebbero semplicemente agito in considerazione del fatto che sussiste un danno non patrimoniale, di tipo esistenziale, consistente in una lesione della dignità personale ed al prestigio personale e non un effettivo mutamento dei rapporti personali, omettendo di specificare che non tutti i fenomeni di demansionamento provocano un danno.

Inoltre, la società lamentava che la Corte di merito avrebbe liquidato un risarcimento, in assenza di un turbamento soggettivo del dipendente, né direttamente né indirettamente, limitandosi a dare per scontato che dal demansionamento derivi necessariamente danno non patrimoniale.

La Cassazione ha ritenuto corretta, confermandola, la decisone dei Giudici di merito che avevano condannato la società ricorrente al pagamento di una consistente somma di denaro a titolo di risarcimento del danno, per aver assegnato il lavoratore dipendente in questione a mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica di appartenenza, durante l’arco temporale di oltre due anni, provando il danno anche a mezzo di presunzioni semplici (dignità e prestigio professionale), sulle quali il giudice può fondare il proprio giudizio.

Tuttavia, al fine di contemperare l’esigenza di conservare il posto di lavoro e il diritto del lavoratore a non essere adibito a mansioni inferiori, è possibile derogare il regime di cui all’art. 2103 c.c., prevendendo la possibilità per il datore di lavoro di adibire il dipendente allo svolgimento di mansioni inferiori, come nel caso del lavoratore divenuto inabile a seguito di infortunio o malattia o della lavoratrice in gravidanza, salvo che venga provato il consenso del lavoratore interessato, al fine di evitare il licenziamento.

A cura del Dott. Ciro Abbondante – Consulente del Lavoro e della Dott.ssa Bianca Panico – Praticante Consulente del Lavoro.