Il datore di lavoro o suoi collaboratori possono creare un ambiente lavorativo ostile e teso, ponendo in essere comportamenti aggressivi e vessatori nei confronti di un singolo lavoratore, al fine di denigrarlo, ledere la sua dignità ed indurlo così ad allontanarsi dall’azienda, spontaneamente (dimissioni) o no (licenziamento disciplinare). In costanza di una simile situazione, si parla di vero e proprio mobbing, un fenomeno diffuso ma spesso taciuto per timore di ritorsioni.
A seconda del soggetto che pratica mobbing, si suole distinguere:
Nondimeno, potrebbe verificarsi anche una diversa forma di mobbing, cosiddetta ascendente, quando sono i dipendenti a praticarlo nei confronti del datore di lavoro, coalizzandosi tra di loro, ribellandosi o disattendendo ai propri doveri, senza un’adeguata motivazione, provocando danni economici e non all’azienda.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale (sentenza n. 10037/2015), sette sono i parametri tassativi di riconoscimento, in presenza dei quali si configura il mobbing e che permettono al ricorrente di avere diritto al risarcimento del danno. Essi sono:
1) L’ambiente;
2) La durata (per un congruo periodo di tempo);
3) La frequenza o reiterazione del comportamento;
4) Il tipo di azioni ostili;
5) Il dislivello tra gli antagonisti, ovvero il lavoratore mobbizzato deve essere in una posizione gerarchica inferiore rispetto a coloro che mobbizzano;
6) L’andamento secondo fasi successive, che potrebbero concretizzarsi in: inizio del mobbing, isolamento, aggravarsi del comportamento, esclusione dal luogo di lavoro;
7) L’intento persecutorio, ovvero l’elemento soggettivo.
In diversa composizione (sentenza n. 2142/2017), la Cassazione ha ulteriormente precisato che devono ricorrere:
Sulla base della presente disamina, la Corte si è nuovamente pronunciata con la sentenza n. 28098/2017, affermando che le condotte persecutorie del datore di lavoro devono necessariamente essere ripetute in un breve arco di tempo. Infatti, a conferma di ciò, i giudici hanno respinto il ricorso del lavoratore in questione che chiedeva un risarcimento del danno da mobbing, lamentando le inusuali e contestabili modalità di esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro stesso.
Tuttavia, nel caso di specie, si discuteva di quattro episodi distaccati negli anni (tra il 2003/05/07), privi del carattere della sistematicità, della durata dell’azione e non collegati da uno stesso intento persecutorio.
Nonostante la vittima di mobbing venga tutelata dal nostro ordinamento, non esiste una legge appositamente dedicata e questo fa sì che vengano a delinearsi diverse forme di tutela quali:
Tra i casi di mobbing più frequenti ricordiamo il demansionamento e dequalificazione professionale, sanzioni disciplinari, limitazioni sulle possibilità di carriera, diniego di ferie e permessi, sovraccarico di lavoro e così via.
A cura del Dott. Ciro Abbondante – Consulente del Lavoro e della Dott.ssa Bianca Panico – Praticante Consulente del Lavoro.